Descrizione
La mostra che il Museo-FRaC ha realizzato, dopo un attento lavoro di ricostruzione storico critico, è dedicata ad un momento della sua pittura che in pochi conoscono: i collages. È una significativa ma breve stagione che ha segnato l’apertura di un dialogo con quanto accadeva nella sfera dell’arte in quegli anni, negli Stati Uniti, in Francia e in Italia: un periodo di brevissima durata – tra l’estate del 1964 al 1966 – ma che ha segnato profondamente sia l’attività espositiva del Maestro, con mostre personali e collettive in Italia e all’estero, sia il dibattito all’interno della cultura artistica salernitana. Carotenuto, “un artista tra tradizione cubista e novità pop”, come lui stesso sosteneva, pronto ad accogliere i nuovi venti che, nella prima metà degli anni Sessanta, spiravano in Italia: è quanto testimonia questa mostra con le cinquanta opere esposte.
“Nella compagine delle esperienze artistiche napoletane degli anni Sessanta – scrive Bignardi –, ad un oggetto arcano e denso di mistero, guardavano con interesse sia le esperienze di Renato Barisani con la serie delle granceole, richiamandosi, quindi, ad un mondo ctonio, sia quelle condotte tra il 1960 e il 1963 da Lucio Del Pezzo e, tra il 1964 e il 1966, da Mario Carotenuto, che tessono un dialogo, con accenti diversi, con l’oggetto arcano, impregnato di mistero, fatto risalire dal profondo bacino degli archetipi. È quanto testimoniano le opere di Del Pezzo, quali Il mio paese, del 1962, e l’Ebdomero, del 1963, entrambe connotate da una composizione densa di rilievi, di ex-voti, oggetti di una fede popolare. Per Carotenuto sarà il confronto con la dimensione intimistica, nel quale l’esercizio del greffage diviene operazione di uno scavo, inteso come atto di ribellione, di decisa rottura con l’immagine di un Sud racchiuso nella scenografia della fede. «In questi quadri – affermava l’artista nella mia prima intervista, rilasciatami il 15 gennaio del 1975, nel suo studio alla ‘Torretta’ – c’è sempre il confronto tra gli oggetti deperibili e il cielo che è eterno, sono espressioni, quindi, dell’idea di deperibilità nel tempo. […] C’è lo sfacelo di tutti i fatti del Sud, della nostra zona, dei nostri paesi, della nostra tradizione, della nostra cultura, in contrasto con quel cielo che è bellissimo, limpido, trionfante così come lo vediamo nelle cartoline».
A Venezia s’imbatte nei nuovi linguaggi che dilagano sulla scena internazionale dell’arte: dai neodadaisti e popartisti che animano il padiglione U.S.A. (alla sua prima apertura), la cui presenza aveva acceso il dibattito e le polemiche dell’estate ai pittori italiani, penso a Del Pezzo, a Barisani, ad Enrico Bugli, a Rosaria Matarese, ma anche agli esponenti della Scuola di piazza del Popolo. L’impatto con le opere di Oldenburg e di Dine è certamente meno entusiasmante di quello che, il Nostro, avrà con quelle di Rauschenberg e Johns. L’interesse, in particolare per il primo, non è tanto rivolto alla composizione, al suo disordine di materie attinto alla tradizione dadaista, quanto al valore di nuova oggettività data alla materia che trasgrediva l’esaltazione soggettiva ed individualistica, ma anche alla strisciante contestazione di una realtà sociale, delle contraddizioni che essa registra, nonché l’uso di un nuovo paradigma iconografico che, ora, chiama in scena brani attinti, contestualmente, da un’imagerie familiare, unitamente a quella propria della storia dell’arte, dei giornali, dei rotocalchi: insomma l’attrazione, potremmo affermare, verso nuove nozioni visive. Mario aveva ben compreso il tentativo, da parte dei neodadaisti, di dare una nuova ‘prospettiva’ o, meglio ancora, un’oggettività oggettuale che, avrebbe detto Crispolti, è quella dell’oggetto fisicamente presente davanti a noi. Carotenuto non condivide,come attestano i suoi primi collages, il sotteso tendere, soprattutto dei popartisti statunitensi presenti a Venezia, tra questi i più giovani, John Chamberlain, Claes Oldenburg, Jim Dine e Frank Stella, verso un nuovo realismo posto sotto l’insegna della società dei consumi e dei mass media”.
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