Descrizione
Libero De Cunzo – Aderire perfettamente alla vita
La buona fotografia, sosteneva Robert Adams, ha come suo indiscutibile fondamento, quello di “aderire perfettamente alla vita”; assunto che il celebre fotografo statunitense traeva dall’insegnamento di Minor White e che ha fatto suo. Cosa intendevano, prima White e poi Adams, per buona fotografia o anche “buone fotografie”? Domanda alla quale è difficile dare una risposta univoca.
Certo, l’attenzione non poteva esser rivolta ai soli aspetti tecnici, all’apparecchio o ai processi di stampa. No! Non poteva essere, perché tale affermazione conteneva, già, la consapevolezza della rivoluzione introdotta, all’indomani della sentenza del 1862 che diede ragione a Léopold Ernest Mayer e Louis Pierson a danno degli artisti capeggiati da Ingres, che affermava la fotografia come espressione dell’arte. Un’arte, la fotografia, che aveva cambiato e continuerà a cambiare, significativamente, il rapporto dell’uomo moderno con l’immagine e, per essa, con le cose della realtà, siano oggettive o soggettive, dunque oggetti, paesaggi, gesti, volti insomma l’universo intero, materiale e immateriale, tradotto dal nostro sguardo in immagini.
La fotografia, le “buone fotografie”, ricordava Adams, rifacendosi nuovamente all’insegnamento di White, aprono nuove strade, ossia ci conducono verso qualcosa che forse è al di là della vita stessa. Indicare l’“oltre”, può, o forse significa, cambiare punto di osservazione; proporre angoli diversi, sentieri creativi che si aprono entrando, con il corpo del apparecchio, dell’obiettivo, all’interno della vita, quindi assumere un significato che ci spinge al di là delle apparenze. Come scrive Agamben, essere nel proprio tempo, essere contemporanei, significa calarsi nelle ombre che si aprono, oggi più che mai nell’asfittica condizione surmoderna, quindi dell’eccesso, negli specchi luminosi delle apparenze, della superfice effimera della quotidianità. La fotografia, le “buone fotografie” non possono che aderire ad assunto etico; ciò non obbliga l’indifferenza, la mancata attenzione verso chi, della fotografia, ne fa uno strumento di documentazione, ma anche di chi lega le sue capacità creative al mondo della comunicazione pubblicitaria.
La fotografia – affermava Cartier-Bresson da artista del Novecento – “non può che mostrare le lancette dell’orologio, ma sceglie l’istante”. Ed è questo l’aspetto che, sin dai primi incontri all’alba degli anni ottanta, mi ha particolarmente interessato dell’esperienza e della ricerca di Libero De Cunzo, per me onnivoro fotografo ‘catturatore’ di immagini. Il primo impatto, in quegli anni, fu con le opere che proposi, insieme ad altri, nella mostra “I segni di Montesano”, allestita nell’estate del 1984 nella Biblioteca comunale di Montesano sulla Marcellana: nei suoi lavori si scorgeva, chiara, una lucida analisi del rapporto tra il particolare e l’insieme, che poi si è sedimentato come necessità – è quanto afferma l’artista – di “elaborare il ritmo tra luce e ombra, notte e giorno, amore e morte”. Nel corso di quarant’anni, che ci hanno visto insieme in diverse occasioni espositive, Libero è rimasto fedele a tale visione: da Oida, del 1992 nella quale proponeva una sperimentazione che faceva leva sugli effetti del fenomeno di rifrazione e riflessione della luce nell’acqua a “Infiniti possibili”, ospitata a Villa Rufolo a Ravello nella primavera del 1994, esperienza da me condivisa con Georges Vallet. Le immagini di Ravello e della costa sottostante, svelano, dell’allora giovane fotografico, il suo voler imprimere a ciascun fotogramma, la coscienza di uno sguardo attento al destino del paesaggio, inteso come universo della vita. Scrivevo che Libero rifletteva, oggi continua a farlo in questa lunga sequenza dedicata all’isola di Procida, sullo spazio visibile e invisibile della realtà che lo circonda, il luogo ove il Sé abita il collettivo, il comune. È lo spazio costruito da immagini che la coscienza fa sue; immagini che portano la forza e la gioia dell’incontro, innanzitutto con la luce, energia che svela.
L’ ‘onnivoro catturatore’ si è servito e si serve di tutti i mezzi tecnici e tecnologici, per allungare il suo sguardo nel mondo. Partito dall’analogica ha poi tentato le tante altre strade offerte dalla scienza alla fotografia: dalla macchina digitale alla macchinetta subacquea usa e getta – penso ai citati lavori per Oida – finanche il ritorno alla scatola con il foro stenopeico, infine al cellulare le cui immagini, al mattino presto, WhatsApp ce le mostra in presa diretta sul piccolo monitor dello smartphone. Nel 2003, l’intensa campagna fotografica dedicata al paesaggio dei laghi flegrei, la cui mostra fu allestita in quell’anno al Castello di Baia, lo porta a riprendere il tema dell’ “essere nel paesaggio” che si palesa, nitido, in questa sequenza di immagini di Procida, riattraversata, in compagnia di Elisabetta Montaldo, nel 2009. Libero ha voluto, per questa mostra, spingere la sequenza, attualizzando la visione di Procida, invasa dall’allegro popolo dei ‘cappellini’. La sua fotografia si fa, quindi interprete di un modo di inquadrare la realtà rinunciando a qualsiasi sua conferma; anzi segue lo svolgersi nel tempo dei segni dell’urbano o del paesaggio-natura.
Una metodologia immaginativa che in queste fotografie, ci guida nel mistero dei fotogrammi, nel bianco e nero delle zagare o delle ‘donne in camicia’, tra limoneti sospesi sul mare e giardini di colori
avvolti nel mito dell’isola. Libero rilegge la sua amata Procida, la ‘terra madre’ così come da sempre l’avverte, restituendo ad essa l’identità di luoghi ‘segreti’. La fotografia aggiunge allo sguardo il tempo di una nuova lettura. È un leggere dell’anima che ci aiuta a superare lo sconforto di fronte alla bellezza del paesaggio e ritrovare, in esso, l’essenza del nostro respiro. Libero ci dà memoria di una Procida avvolta nella sua intima vita e, al contempo, ci svela l’accelerato ritmo di una realtà che oggi la pervade. Non sempre la notorietà contribuisce alla conoscenza; a volte le iperbole contemporanee, gli specchi sui quali scivolano le apparenze, rischiano di compromettere l’ambiente, cioè il suo equilibrio sociale. (Massimo Bignardi)






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