Al Museo FRaC di Baronissi, in mostra le opere dell’artista napoletano Arturo Pagano
Il 14 Novembre il Museo FRaC “apre” nuovamente le porte alle infinite espressioni dell’Arte. Le stanze digitali del Museo accolgono infatti le Opere che meglio sintetizzano gli oltre quarant’anni di attività artistica accumulati dall’artista campano Arturo Pagano.
La Mostra rende vivida e palpabile tutta la potenza e sinuosità dei Dipinti e Disegni che caratterizzano il Catalogo d’Arte, edito da Gutenberg Edizioni e curato dal critico Massimo Bignardi. Un appuntamento imperdibile se non altro per confrontarsi con l’intima espressività che Arturo Pagano riesce a trasferire nelle sue opere.
Guarda l’introduzione alla Mostra a cura del critico Massimo Bignardi
Ti proponiamo inoltre – più che una semplice intervista – un dialogo sincero e immaginifico sulla pittura, il ruolo dell’artista e le sue influenze territoriali e socio-culturali. Puoi leggerla qui di seguito.
Bignardi – La pittura, come ho avuto modo in più occasione di affermare, è un’esperienza soggettiva della relazione che l’artista instaura con il mondo tangibile dell’esistenza. Un esercizio, prioritario, fortemente legato all’evoluzione di quei primi segni che il bambino lascia sul piano, sulle pareti, sui fogli. Con la formazione, con lo sviluppo di un proprio linguaggio, si approda, com’è nel tuo caso, ad una pittura che si fa espressione di una profonda identità esistenziale. Cos’è stato per te la pittura, quella dalla forte impronta figurativa che, tra il 1977 e il 1985, ha segnato un’ampia produzione raccolta per la prima volta in questa monografia? Cos’è oggi, in questi ultimi anni, che ti vedono interessato a materiali nuovi, a colori che provengono da nuove tecnologie, a scultopitture che implicano attenzioni alla sfera del digitale?
Pagano – Vorrei fare una piccola introduzione su cos’è il processo creativo per un artista. Questo tema, che mi ha interessato, ha trovato qualche anno fa una sua chiarificazione, dopo aver ascoltato una conferenza di Massimo Recalcati sul tema La creatività come manifestazione del desiderio, nella quale affermava: “Quando si è davanti ad una tela bianca, non siamo di fronte al vuoto, perché su quella tela, su quella superficie bianca sono depositati come delle stratificazioni tutte le citazioni, le regole, la storia dell’Arte, tutto quello che è stato già dipinto fino ad ora; non si è di fronte al vuoto, ma si è di fronte al pieno delle regole che hanno strutturato e fatto la storia della pittura”. Per questo motivo, penso ora, ho sempre o quasi sempre, usato carte differenti, già disegnate, colorate, strappate o macchiate, scegliendole di volta in volta con uno stato d’animo diverso, instaurando un rapporto d’intimità, cosa che non avrei mai avuto con il foglio bianco.
Questo operare aveva generato il vuoto e quindi la possibilità della creatività. Il disegno è al tempo stesso prefigurazione di qualcosa che dovrà avvenire, è la forma vera della cosa, è il gesto che procede dal desiderio di mostrare quella forma e di tracciarla al fine di mostrarla. Il pensiero viene visualizzato, traccia un confine, indica un percorso, il fine, il proposito dell’azione. Ti domina, non puoi farne a meno; a volte non riesci a stargli dietro. È stato per me, e lo è tutt’ora, un luogo di sperimentazione quotidiana. Tutto ciò mi ha dato la possibilità in quegli anni e, specialmente tra il 1981 agli anni 1985, di approdare ad una pittura, che mi ha permesso di mantenere una dimensione introspettiva, che scaturiva da un’arte vissuta sotto forma di un diario, sperimentando ed avventurandomi su terreni che mi avrebbero portato a cimentarmi con materiali, che poi si sono ritrovati, negli anni successivi, in un lavoro completamente diverso da quello degli esordi.
Alla fine del 1985 l’importanza che aveva avuto il corpo umano scompare; è come se non ci fosse più luogo. Resta la pittura, che si mette in mostra con una nuova narrazione e con un impianto geometrico, perché, come dicevo tempo fa, la geometria agisce nel mio lavoro come una specie di rumore di fondo che giace nel linguaggio, così come l’uso del colore obbedisce alla regola del controllo, non annullando l’emozione. Questo nuovo procedere è divenuto fortemente progettuale lì dove, abbandonata la figura, sono passato all’assunzione di forme geometriche, che tessono la cifra di un dettato esistenziale, affine ai modi del minimalismo, tra l’immagine e la sua ombra, giocando infatti sul rilievo.
– L’immagine del Vesuvio, della costa, della città ove sei nato e cresciuto, Torre del Greco sono paesaggi del ricordo, che ritornano in un gran numero di dipinti e tecniche miste. In questo caso la pittura assume un tono memoriale: le figure mitologiche e la realtà s’intrecciano per farsi ‘racconto’, della terra e del tuo tempo. Com’è che hai vissuto e vivi il rapporto con i luoghi della tua vita?
Ho avuto la fortuna di nascere a Torre del Greco, in uno dei centri urbani sul golfo di Napoli, che si sono sviluppati alle falde del Vesuvio, la montagna addormentata, le cui pendici arrivano al mare, il nostro Mediterraneo. Pensavo che non avrei mai lasciato questi luoghi, specialmente il mio mare, compagno inseparabile della mia gioventù; questa terra carica di storia, animata da racconti e visioni ancestrali di cui, nelle Metamorfosi, Ovidio parla come terra del corallo, nato dal sangue di Medusa; la presenza del vulcano, che a lungo ho esplorato e che mi attendeva ad ogni mio risveglio; un nonno incisore di cammei. Questi sono solo alcuni, forse i più significativi, dei motivi che mi hanno spinto a frequentare l’Istituto d’Arte di Torre del Greco, orientando gli studi verso l’incisione del corallo.
Tutto questo si è depositato nei miei lavori di quegli anni, diventando una dimensione altra, che potremmo chiamare spirito del luogo. È, in fondo, ciò che l’artista stratifica nella dimensione, potremmo dire, archetipa: lo spirito del luogo richiede uno spirito di idealizzazione che, tramite la forza della pittura, può diventare proprietà immaginaria di tutti. È una forte soggezione che ci invita a cercare l’anima dei luoghi e a “fare anima” con il mondo, come direbbe Hillman. Lasciai la mia terra nel 1980 per il servizio militare, avevo ventidue anni; questa partenza determinò l’interruzione degli studi intrapresi all’Accademia di Belle Arti di Napoli: da quel momento proseguii il viaggio della mia vita in altri luoghi.

–Terminati gli studi, la scelta era quella di restare a Napoli, oppure di trasferirsi a Milano, oppure fare il pendolare tra Napoli e Roma. In quei primi anni ottanta certamente Napoli, ma anche Roma, davano segni di una nuova stagione, soprattutto grazie ad una generazione che aveva lavorato intensamente nel decennio precedente. Soffermando l’attenzione su alcune tue opere si rilevano impianti compositivi figurativi, animati da una carica espressiva, distante dall’interpretazione offerta in quegli anni da alcuni interpreti della Transavanguardia, almeno sul piano della qualità del portato pittorico, della capacità che il colore ha di distorcere il segno. A Roma, la situazione era leggermente diversa e il recupero di una cifra espressionista segnava le esperienze di quegli artisti che si ritrovavano a lavorare nel Pastificio Cerere, nel quartiere di San Lorenzo. Era questo l’ambito che tu frequentavi nei tuoi lunghi soggiorni romani? Come li ricordi quegli anni?
Dopo il 1980, una volta finiti gli studi presso l’Istituto d’Arte di Torre del Greco, dove ero stato allievo di Renato Barisani, sebbene avessi avuto già esperienze espositive a Milano, preferii alternarmi con molta difficoltà tra Roma e Napoli. Col tempo fui catturato dal clima artistico romano e così, grazie all’aiuto di alcuni amici a Roma, iniziai, anche se per brevi periodi, vere e proprie residenze. Napoli in quegli anni era anch’essa una città effervescente, specialmente per me ciò era reso possibile da tutto quello che ruotava intorno alla galleria di Lucio Amelio, di cui ricordo una esposizione molto bella di Barceló, artista dalla forza visionaria che trasmette- va, attraverso la pittura, sensazioni profonde. Negli anni che seguirono il tragico evento del terremoto in Irpinia del 1980, si tenne, a Villa Campolieto di Ercolano, la bellissima mostra “Terrae Motus”, ideata dallo stesso Amelio, che aveva chiesto ad un nutri- to gruppo di artisti internazionali di realizzare opere dedicate al tragico evento e trasformare l’energia distruttrice della natura in forza creativa.
Sull’onda d’urto della Transavanguardia, a Roma alcuni artisti avevano preso le distanze soprattutto rispetto alla pratica della citazione, rivendicando una ricerca di soluzioni nuove dal punto di vista formale, anche nell’uso di materiali, seppur condividendo un ritorno al disegno, alla pittura e alla manualità. Questi artisti costituirono una sorta di area di resistenza. Era molto stimolante quello che stavo vivendo; incominciai a frequentare gallerie come quella di Ferrante e poi quella di Sperone, dove conobbi il lavoro di Bianchi, Ceccobelli, Dessì, Gallo, che allora lavoravano assiduamente con la materia, spesso anche con oggetti trovati (Ceccobelli), creando opere simboliche e raffinate. Questi artisti stabilirono nel quartiere di San Lorenzo, nell’ex pastificio Cecere, un edificio di archeologia industriale, il loro quartier generale, che ben presto diventò una sorta di factory nostrana, costituendo così uno dei poli più vitali della città. Conobbi lo storico gallerista Fabio Sergentini presso la sua galleria, in occasione della mostra dal titolo “Extemporanea”, dove esponevano Ragalzi, Merlino e Corona, oltre naturalmente il così detto gruppo di San Lorenzo. Fu da queste frequentazioni che il mio lavoro cambiò radicalmente: già agli inizi del 1986 la mia pittura aveva perso ogni riferimento figurale.

Mentre riordinavo le opere, partendo dai disegni, la curiosità mi ha spinto a circoscrivere momenti diversi tra loro, segnati da un tempo di riflessione, dapprima sul valore della figura e del suo rapporto con lo spazio, poi sulla relazione colore/espressione che ti ha orientato verso una narrazione figurata; successivamente sull’insorgere di una memoria legata alla tua terra, al magma vesuviano, alle figure di un immaginifico racconto e, infine, sull’irrompere della materia, di corpi/collage, che hanno invaso lo spazio della pittura dando ad essa una nuova identità. A distanza di tempo ti riconosci in questo tracciato esperienziale?
L’arco temporale a cui facciamo riferimento va dal 1977 al 1985: i disegni del 1977 hanno un impianto accademico derivante dagli studi artistici. Quello a cui ero già interessato era la contaminazione tra il disegno e i fogli di carta che avevano una loro storia; per questo, molti di quei disegni furono eseguiti su fogli appartenuti ad album scolastici degli anni quaranta di mia madre. Successivamente i disegni e le tecniche miste su carta, materiale che ho sempre privilegiato con l’inserimento del collage, carte di recupero o di disegni volutamente strappati e fatti divenire altro nel corpo dell’impaginato, avevano una narrazione più autobiografica e, in molti casi, erano portati a formati più grandi, dove il corpo della pittura e la sua narrazione si accendevano di un forte cromatismo. A circa quarant’anni da questi lavori, oggi riconosco la mia irrequietezza, fondata su una profonda e coerente volontà progettuale: irrequietezza, eclettismo che ha attraversato, in maniera più o meno evidente, il mio lavoro. L’arte, com’è stato per moltissimi artisti, impone la conquista di nuovi territori. Indipendentemente dalle proprie origini è stata e continua ad essere un’infaticabile battaglia. Come afferma Schnabel, la vita è respiro. Solo dopo si trasforma in un giorno, in tre anni, in prima e dopo. È semplicemente una presenza infinita. Proprio come la pittura.